mercoledì 4 febbraio 2009

CALL CENTER: SINDACATI CHIEDONO UN TAVOLO NEGOZIALE A GARANTE PRIVACY


(ASCA) - Roma, 3 feb - C'e' una emergenza che riguarda i lavoratori dei call center, dopo che lo scorso 26 giugno il Garante per la protezione dei dati personali ha vietato ad alcune societa' specializzate il trattamento non in conformita' con la legge di dati personali. Alessandro Genovesi, segretario nazionale del Sindacato lavoratori comunicazione della Cgil (Slc), puntualizza: ''Il Garante ha chiesto solo il rispetto della legge. Le aziende oneste acquistano i dati in conformita' con le norme in vigore, altre invece attingono a banche dati non autorizzate''. Genovesi dichiara all'Asca che il suo sindacato e quelli di settore di Cisl e Uil hanno inviato una lettera al Garante per un incontro che serva a chiarire la situazione: ''Finora non abbiamo avuto una risposta. Noi restiamo disponibili ad aprire una fase, per esempio di sei mesi, che serva alle aziende e alle banche dati per mettersi in regola''. Da qui la proposta di un tavolo negoziale tra Garante, aziende interessate e sindacati.

Piu' allarmanti di quelle dei sindacati sono le stime dell'Assocontact (l'associazione di settore che fa capo a Confindustria) sulla situazione dei call center: sarebbero a rischio 30 mila dei 250 mila posti di lavoro conteggiati in questa attivita' (sono all'incirca 80 mila i lavoratori delle societa' che appaltano questo tipo di servizio). In particolare, la circolare del Garante ha vietato ad alcune societa' specializzate il trattamento di dati provenienti da elenchi telefonici pubblicati prima del primo agosto 2005 e senza che gli interessati abbiano espresso il proprio consenso. Questa circolare ha inciso sulla crisi dei call center? ''Non credo. I call center sono in crisi per altri motivi. Le grandi aziende si stanno ristrutturando e scaricano i costi sulle societa' appaltatrici di servizi. Sull'utilizzo delle banche date bisogna solo far rispettare le regole'', replica Genovesi. Una nota della Uilcom precisa che ''pur ritenendo ineccepibile la delibera dell'Autorita', e' necessario che l'avvio del provvedimento debba consentire l'aggiornamento delle nuove banche dati che dispongano del consenso degli utenti''.

Secondo alcune stime, sono in attesa di regolarizzazione almeno 30 mila precari del settore dei call center (soprattutto quelli che fanno le telefonate). Una circolare del marzo 2008 di Cesare Damiano, ex ministro del lavoro, prevedeva la fine dei contratti a progetto ma il suo successore Maurizio Sacconi l'ha annullata ricevendo le aspre critiche dei sindacati. Interrogazioni parlamentari sul merito della vicenda apertasi con la delibera del Garante relativa al trattamento dei dati personali da parte dei call center sono state presentate da Lega nord, An, Forza Italia, Idv e Pd. La Camera, lo scorso 15 gennaio, ha votato un ordine del giorno proposto dalla Lega nord che impegna il governo ''a valutare l'opportunita' di emanare provvedimenti di propria competenza che contemplino una deroga dell'applicazione degli obblighi di cui agli articoli 13 e 23 del Codice in materia di protezione dei dati personali''.

gar/Gas/ss

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Reddito minimo alla Francese

L'estate prossima entrerà in vigore in Francia il Revenu de Solidarité Active, un nuovo sussidio pubblico ideato per semplificare la giungla delle misure di sostegno, lottare in modo efficace contro la povertà ed evitare fenomeni di disincentivazione al lavoro. Anche in Italia da tempo circolano proposte di reddito minimo garantito. La riforma francese può essere un esempio anche per noi? Due i problemi: i costi per le esangui casse statali e l'imponente tasso di lavoro sommerso e di evasione fiscale, che potrebbero mettere in dubbio l'efficacia di un simile strumento.

Lo scorso ottobre in Francia è stato approvato un nuovo sussidio pubblico, il Revenu de Solidarité Active (Rsa), che entrerà in vigore dal 1ºluglio 2009 cancellando il Revenu Minimum d'Insertion (Rmi): l’obiettivo è semplificare la giungla di sussidi, lottare efficacemente contro la povertà e al tempo stesso evitare fenomeni di disincentivazione al lavoro.

VECCHIO E NUOVO STRUMENTO

L'Rmi esiste fin dal 1988. Èun contributo means-tested differenziale, cioè uguale alla differenza tra un reddito minimo calcolato secondo la composizione del nucleo familiare e l'insieme dei redditi della famiglia. L'Rmi è una forma di trasferimento pensata come contributo alle fasce più povere, tuttavia nel 2007 è stato percepito da 1.229.754 di cittadini francesi.
Il promotore principale del Revenu de solidarité active è Martin Hirsch, ex presidente di Emmaus Francia e attualmente alto commissario alle solidarietà attive del governo Fillon.
L'Rsa sostituirà i minimi sociali esistenti, Rmi e Allocation parents isolés, e sarà accompagnato da un meccanismo di incentivo al lavoro, la Prime Pour l’Emploi. Per chi non lavora si tratta un reddito minimo, per chi ha un’occupazione retribuita, invece, di un complemento al reddito. Èstrutturato, dunque, come un sistema misto che da una parte garantisce un livello decente di sussistenza, dall'altra evita la “trappola della povertà”.
A differenza dell'Rmi, infatti, l'Rsa garantisce a chi lavora il 60 per cento o il 70 per cento (varia a seconda dei *départements*) del reddito supplementare senza che questo riduca il sussidio pubblico: da una parte, un tale strumento lotta contro la piaga dei lavoratori poveri, che in Francia sono aumentati del 20 per cento negli ultimi anni, garantendo loro un'integrazione significativa. Dall'altra, incita al ritorno al lavoro perché il reddito rimane piuttosto debole.
Per essere più chiari ricorriamo a un esempio numerico: a una persona sola che guadagna 513 euro (impiego a tempo parziale pagato al salario minimo orario) la Rsa garantisce un reddito di 713 euro. Per chi, invece, non percepisce alcun tipo di reddito le cifre rimangono quelle del Rmi. Economicamente, dunque, si presenta come una negative income tax alla Milton Friedman: a tutti i cittadini francesi o immigrati regolari al di sopra dei 25 anni è garantito un reddito minimo, coloro che non lo raggiungono ricevono un sussidio, mentre chi lo supera paga le tasse.
La Rsa costerà 13 miliardi, a carico dell’amministrazione centrale, ma sarà gestita a livello “provinciale”. Ben 11,5 miliardi saranno recuperati dai precedenti sussidi: 5,5 dall'Rmi, 4,5 dalla Prime pour l’Emploi più 1,5 miliardi da altri contributi. Dunque, il costo aggiuntivo ammonterà solo a 1,5 miliardi di euro. Anche il processo che ha portato al nuovo sussidio è particolarmente interessante: è attualmente in sperimentazione in 34 départements, le nostre province, e sottoposto all’esame di una commissione di esperti presieduta dall’ex vicepresidente della Banca Mondiale François Bourguignon, che entro la fine del 2008 dovrà valutarne l'efficacia.

CRITICHE

L'Rsa ha incontrato un successo bipartisan inedito anche per la politica transalpina. Tuttavia, alcuni economisti di rango, come Thomas Piketty, pur sottolineando la bontà dell’idea, hanno espresso dubbi sulla sua efficacia reale: sarà sufficiente a incitare al lavoro e a lottare contro la povertà con cifre così limitate?
Inoltre, parrebbe che le sperimentazioni, i cui risultati non sono ancora pubblici, non abbiano riscontrato effetti statisticamente significativi che giustifichino la riforma.
Altro punto in sospeso è quello della cosiddetta precarizzazione degli impieghi: la Rsa aiuterà sicuramente i lavoratori a tempo parziale, ma potrebbe anche trasformarsi in un incentivo per i datori di lavoro ad assumere solamente a tempo parziale, trasformando la “trappola della povertà” in “trappola del part-time”. Per il momento, l’alto commissariato alle solidarietà attive non ha saputo dare una risposta chiara, ma ha previsto la semplice creazione di un osservatorio dedicato a questo problema.

E IN ITALIA?

La riforma francese può essere un utile spunto anche in Italia. Nel nostro paese sono ormai diverse le proposte di un reddito minimo destinato a sostituire l’insieme di interventi a carattere assistenziale che più che uno strumento di lotta contro tutti i fenomeni di esclusione sociale, finiscono per sovrapporsi in maniera disordinata e frammentata. Rispetto alla Francia, in Italia esistono tuttavia due ordini di problemi più marcati e sentiti: la creazione di un reddito minimo con una soglia di 400 euro per single senza figli potrebbe costare tra i 3 e i 6 miliardi di euro alla casse statali già notevolmente indebitate. Inoltre, l’imponente tasso di lavoro sommerso e di evasione fiscale mette in dubbio l’efficacia di un tale strumento.

Andrea Garnero

da www.lavoce.info - 13 gennaio 2009

Anonimo ha detto...

Teatro Puccini: Ascanio Celestini in Appunti per un film sulla lotta di classe, giovedì 5 e venerdì 6 febbraio (ore 21.00)

di Ascanio Celestini

A dicembre del 2005 incontro gli operatori di un call center dove lavorano quasi 4000 persone. Si chiama Atesia, è il più grande in Italia e uno dei maggiori in Europa. Poco più dell’1% sono assunti a tempo indeterminato, ma tutti gli altri sono precari. Almeno cinquanta tra loro si sono organizzati nel collettivo Precariatesia e si incontrano due volte a settimana in un seminterrato per studiare la legge 30, la cosiddetta riforma Biagi che in Italia ha istituito il lavoro a progetto. Alcuni fanno telefonate (out-bound), molti le ricevono (in-bound), qualcun’altro fa entrambe le cose. Quasi tutti lavorano a cottimo. Più restano al telefono, più guadagnano soldi fino a una soglia che si aggira attorno ai tre minuti oltre la quale conviene troncare la chiamata perché l’azienda smette di pagarli. Parlano al telefono a nome di operatori telefonici con clienti che si vogliono scaricare l’ultima suoneria di tendenza, rispondono per conto di aziende che imbottigliano bibite gassate o gonfiano reggiseno push-up. Sono i lavoratori squattrinati nascosti dietro ai numeri gratuiti che compaiono sui pacchi di pasta e di biscotti. Il loro guadagno è sempre meno di mille euro lordi al mese, ma spesso per non scendere sotto la metà di questo compenso medio sono costretti a fare anche tre lavori precari contemporaneamente.

Il call center sta nella periferia di Roma dove abito anch’io. Nello stesso edificio di un grande centro commerciale. Le persone che incontro fanno parte di un collettivo auto-organizzato e hanno già preparato scioperi ai quali hanno aderito anche il 90% dei lavoratori. Producono un giornale e cinque mesi prima hanno fatto un esposto all’ufficio provinciale del lavoro di Roma chiedendo un’indagine sulla natura del lavoro in azienda, sulla validità dei contratti che hanno firmato e sul rispetto delle norme di sicurezza. I firmatari dell’esposto sono quasi tutti licenziati o non-riassunti, ma restano a lavorare per il collettivo. Vanno davanti all’azienda, parlano con i lavoratori, gli spiegano quali sono i loro diritti. Incominciano a raccontare anche a me la loro storia e io li ascolto, li registro, scrivo appunti. Appunti attorno a un personaggio che potrebbe avere poco più di trent’anni, che potrebbe lavorare in un call center, che potrebbe vivere in un condominio qualunque della periferia romana dove sono nato. Dove vivo.

Il 1° maggio del 2006 con Matteo D’Agostino, Roberto Boarini e Luca Casadei cantiamo una canzone al concerto di piazza s. Giovanni. È il primo frammento che abbiamo scritto sull’argomento e alla fine del mese siamo al Piccolo teatro di Milano con “Appunti per un film sulla lotta di classe”. Da poco in Italia ci sono state le elezioni. Berlusconi è stato sconfitto per pochi voti, ora c’è un governo di centro-sinistra. Una settimana dopo il debutto dello spettacolo il ministro del lavoro emana una circolare nella quale si distinguono i lavoratori out-bound dagli in-bound, i primi devono essere riconosciuti come veri e propri lavoratori subordinati, i secondi possono continuare a lavorare come precari se nel loro contratto è realmente indicato un progetto che li individua come lavoratori autonomi. A agosto dopo 13 mesi di ispezione, l’ufficio provinciale del lavoro di Roma da ragione al collettivo. I lavoratori del call center Atesia devono essere tutti assunti a tempo indeterminato. L’azienda ricorre al tribunale regionale, il governo fa immediatamente un condono, la situazione si complica.

Così da settembre lo spettacolo deve cambiare nel tentativo di seguire i cambiamenti del lavoro precario in Italia. E mentre gli appunti aumentano, ci allontaniamo sempre di più dal primo tema del lavoro precario per andare verso quello della lotta di classe, un conflitto inevitabile in una società fatta di Prozac e Mulini Bianchi, di divi del cinema e chilocalorie. Gli appunti aumentano e il personaggio di questa storia incomincia a leggere Marx e la Settimana Enigmistica, ha una madre che supera la depressione pulendo il bagno, un fratello che dice le parole al contrario, un gatto misterioso e apparentemente stitico. Nel suo condominio vive una prostituta che puzza di copertone bruciato, un portiere con il figlio innamorato di donne anziane, Marinella che fa i turni di giorno al call center, ma la sua voce registrata è presente anche di notte. E poi c’è la fabbrica dei telefoni, il supermercato dove Dio va a fare la spesa, il bagno del centro commerciale frequentato dal fascista e soprattutto il telefono che squilla quando chiama il cliente che ha perso tutti i suoi soldi nella ricarica, il bambino che dice le parolacce o il maniaco che soffia nella cornetta. Tanti appunti che non vengono mai raccontati tutti insieme nella stessa replica. Appunti che cambiano e ai quali si affiancano le canzoni sul ladro che ruba nella casa di un altro ladro, sul disertore morto che non può fermarsi al semaforo rosso, sui partigiani che vanno a ritirare la pensione, sull’amore impossibile degli innamorati cardiopatici, sulla rivoluzione che inizia tra cinque minuti, sul bruco che vive nel buco.

Anonimo ha detto...

L'INCHIESTA / 1.Scaduti 300 mila contratti a termine e solo poco più di un terzo
dei nuovi disoccupati ha ottenuto un sostegno al reddito: per gli altri niente ammortizzatori
L'anno nero del lavoro a tempo
I precari rischiano l'estinzione
di ROBERTO MANIA

DA flessibili a precari. Da precari a disoccupati. La recessione sconvolge i mercati globali ma anche quelli locali del lavoro. In Italia ci sono circa 4 milioni di lavoratori con contratto atipico e per molti di loro l'obiettivo del posto fisso scolorisce e forse svanisce dentro la perfetta tempesta finanziaria. Per gli atipici, piuttosto, questa è la stagione dei licenziamenti, mentre la precarietà allarga i suoi tentacoli e penetra in quella che era la cittadella dei garantiti del contratto a tempo indeterminato. S'avanzano valanghe di cassa integrazione e di mobilità. E almeno un milione di atipici rischia di finire nelle liste di disoccupazione. La flex-security resta un anglicismo e soprattutto uno slogan con poca fortuna nel Belpaese.

Questa è la prima recessione che affrontano i precari made in Italy. La precedente, quella del '93 con quasi un milione di posti persi, non l'hanno vista semplicemente perché non c'erano. Il pacchetto Treu e poi la legge Biagi, con le tante tipologie contrattuali, arriveranno dopo, a cavallo tra il Novecento e il nuovo secolo: dai co. co. co ai co. co. pro; dal lavoro interinale a quello in somministrazione; dal job sharing al job on call, fino allo staff leasing. Si disse che bisognava rendere più facile l'ingresso nel mercato del lavoro. E le generazioni più giovani hanno sperimentato tutte le vie d'accesso. Ma ci si accorge oggi che è soprattutto più facile licenziare. O non rinnovare i contratti a tempo, che poi è lo stesso. Così - stando a un sondaggio di Eurispes - oltre il 46 per cento degli italiani ritiene che le nuove regole del mercato del lavoro abbiano soltanto reso più difficili le possibilità occupazionali dei più giovani.

Eppure certifica l'ultimo Rapporto del Censis - tra il 2004 e il 2007 l'incremento del lavoro atipico è stato del 14,7 per cento contro una crescita di quello tipico di appena il 2,3 per cento. E ancora: nello stesso periodo i contratti a tempo determinato sono aumentati di quasi il 19 per cento.

I numeri complessivi sui precari in transito verso la disoccupazione ancora non ci sono, ma basta guardare cosa sta accadendo in alcune regioni industriali del nord, dove la crisi sta picchiando già duramente, per intuire il trend. In Piemonte a dicembre le assunzioni attraverso i contratti a tempo determinato sono crollate di quasi il 20 per cento, dopo il - 13,3 per cento di ottobre e il - 18 per cento di novembre. I prossimi mesi, va da sé, saranno peggiori. Tra ottobre e novembre nel torinese - dati provenienti dai Centri per l'impiego - si sono persi, senza i rinnovi dei contratti a termine, così quasi 21 mila posti di lavoro, quando solo nei tre mesi precedenti il calo era stato decisamente più contenuto: poco più di 4.000.

Il grafico del Veneto non è diverso e l'inversione di tendenza si è registrata a ottobre: da quasi 12 mila contratti a tempo determinato di settembre e meno di 7.000 a novembre. Poi c'è l'Emilia Romagna: nel 2008 sono stati assunti con contratto a tempo determinato 109 mila persone, 90 mila di queste scadono nei primi sei mesi di quest'anno. Dire che sono a rischio è un eufemismo.

Tre economisti del sito de lavoce. info (Fabio Berton, Matteo Richiardi e Stefano Sacchi) hanno stimato che a dicembre sarebbero scaduti 300 mila contratti a tempo determinato e solo una parte di questi (meno del 38 per cento) avrebbe poi potuto ottenere il sostegno al reddito. Perché - nell'epoca della produzione just in time e, appunto, della flessibilità del lavoro - il sistema degli ammortizzatori sociali, salvo qualche intervento realizzato dall'ultimo governo di centrosinistra, non è ritagliato per le misure degli atipici. Che non hanno la cassa integrazione perché non mantengono il rapporto con la propria azienda, e per i quali l'accesso all'indennità di disoccupazione è spesso un tragitto tortuoso per superare gli ostacoli che la legge frappone a chi non ha avuto un rapporto standard senza interruzioni. D'altra parte questo è il doppio mercato del lavoro che si è ingrossato negli anni e che non si è mai avvicinato alle vecchie, in fondo rassicuranti, protezione d'epoca taylorista.

Ancora i numeri, questa volta relativi al lavoro interinale che, nell'ingordigia definitoria, è diventato "a somministrazione". Insomma, il "lavoro in affitto". La fonte, questa volta, è l'ultima indagine trimestrale dell'Ente bilaterale nazionale per il lavoro temporaneo. Dunque, nel terzo trimestre del 2008 la differenza tra missioni avviate e cessazioni ha registrato un saldo negativo di 60 mila unità (pari al 25 per cento delle missioni avviate nel periodo). Ma nel 2007, considerando il medesimo arco temporale, il saldo era positivo, con un numero di assunzioni superiore di circa 7 mila rispetto alle cessazioni. D'altra parte se sprofonda la domanda, nessuno può chiedere lavoro. E già in condizioni normali - secondo l'Istat - un lavoratore temporaneo ha 14 probabilità su cento di perdere il posto entro un anno, contro il 4 per cento del lavoratore tipico.

Gli atipici, si sa, sono i più giovani. Il 21,5 per cento dell'arcipelago del lavoro precario è costituito da lavoratori fino a 34 anni di età. La classe di età compresa tra i 35 e i 44 anni - secondo il Censis - rappresenta il 9 per cento; e ancora meno la classe tra i 45 e i 54 anni: il 6,2 per cento. Ma la precarietà dei giovani - sostiene il Censis - "risulta aggravata" dal netto calo del lavoro tipico nella loro fascia d'età: - 9,5 per cento. E' così che la precarietà è entrata nel ceto medio, perché sono anche i figli di un piccola borghesia poco avvezza alle intemperie del mercato del lavoro, cresciuta all'insegna della stabilità e del progressivo miglioramento del proprio status, a fare i conti con l'incertezza. Certo, sono i precari delle professioni intellettuali, degli uffici, delle consulenze, della pubblica amministrazione, delle università, della ricerca. Non delle fabbriche e neanche dei call center.

Che, probabilmente, restano ad appannaggio delle classi popolari. Ma - ha scritto Aris Accornero nel suo "San Precario lavora per noi" - "non si può escludere che i ceti medi, coinvolti in una precarietà che non avevano mai conosciuto, ne vengano da questa frustrati più di quanto tocchi alla classe operaia, se non altro perché avevano aspettative di una maggiore stabilità dell'impiego". La precarietà allora diventa capillare come fenomeno percepito dalla comunità, aldilà delle sue dimensioni numeriche. Soprattutto perché non esistono paracaduti sociali: il precario, in Italia, è senza rete protettiva.

In un'inchiesta di poco più di un anno fa, la Ces (la Confederazione dei sindacati europei) ha stimato che l'esercito dei lavoratori vulnerabile (o perché no? working poor, come negli Stati Uniti) ha superato i 30 milioni in tutto il continente: sei milioni nella Spagna del boom immobiliare e della iperliberalizzazione del mercato del lavoro, cinque nella Gran Bretagna, deindustrializzata, sei nella Germania dal welfare opulento. Così che - dati Eurostat - la percentuale di lavoro temporaneo in Europa è di poco superiore al 14 per cento (14,3), ma è oltre un terzo nel mercato spagnolo, il 14,2 per cento in Germania, il 13,3 per cento in Francia, il 12,3 in Italia. Una percentuale non clamorosa ma che negli anni, nella mancanza di un progressivo adeguamento delle protezioni sociali, ha inciso fortemente sulla cultura del lavoro e anche sulla scarsa produttività della nostra economia. Perché non può non esserci un rapporto tra la flessibilizzazione disordinata del nostro mercato del lavoro, con le sue frammentazioni e destrutturazioni, con la sua illusione di un'occupazione crescente nonostante un Pil perlopiù stagnante, e il crollo della produttività del sistema. E' solo una coincidenza che dal 1995 al 2004 la produttività media del lavoro sia aumentata da noi solo del 3,1 per cento, contro il 12 per cento tedesco e l'11,8 per cento francese? Eppure nei decenni passati, quelli delle garanzie, eravamo stati noi la tigre europea.

Infine, dopo essere stati tanto flessibili e poi anche precari, i nostri lavoratori atipici difficilmente saranno pensionati, almeno come concepiamo noi adesso questa categoria. Certo - quando lavorano - versano i contributi previdenziali, e il loro è uno dei fondi dell'Inps con il migliore attivo. Ma serve per pagare le pensioni dei loro padri. E forse anche i prepensionamenti decisi, ancora una volta, dall'arroganza della recessione.
(9 febbraio 2009)