martedì 19 giugno 2012

Tutele e contratti atipici



di Diletta Mureddu

Lavoro in un call center che si chiama Comdata e ho un contratto a tempo indeterminato. Formalmente non sono una precaria e per il governo Monti sono pure una garantita. Al contrario di quanto dice Monti, non mi sono mai annoiata a fare sempre lo stesso lavoro. Prima di Comdata lavoravo in uncall center che si chiamava Vol2 dove tutti i 473 lavoratori avevano un contratto a tempo indeterminato.
Lavoravamo con dignità e serietà, poi improvvisamente arriva dal nulla una fantomatica proprietà di cui molti avranno di certo sentito parlare: I Liori.
Questi signori iniziano a non pagare più i nostri stipendi, i contributi, l’affitto dello stabile, le bollette, fino a che ci siamo ritrovati senza un lavoro, senza una sede in cui lavorare e senza più un futuro. Questi signori rubano i nostri soldi e umiliano il nostro lavoro e dopo aver raso al suolo tutto si volatilizzano. Eppure avevamo tutti un contratto a tempo indeterminato. L’epilogo per la maggior parte di noi è stato positivo.
Siamo stati riassorbiti dal call center Comdata. Oggi abbiamo finalmente un lavoro dopo quasi un anno di lotte, occupazioni, manifestazioni, appelli alle istituzioni. Se qualcuno mi chiedesse se sono serena con il mio contratto a tempo indeterminato risponderei di no. Le aziende oggi, soprattutto i call center e soprattutto in Sardegna, non consentono ai lavoratori di poter vivere e lavorare serenamente e tranquillamente.
C’è il pericolo della delocalizzazione, perché il lavoro in paesi come la Romania costa molto meno del nostro e permette un risparmio non da poco; c’è poi il rischio costante che i volumi di attività diminuiscano: noi lavoriamo 2 commesse per Telecom ed Enel  e viviamo nel costante terrore che i committenti possano decidere di toglierci il lavoro per mille ragioni: non siamo competitivi, non raggiungiamo gli obiettivi, costiamo troppo, ormai lavoriamo da troppi anni e non produciamo più come una persona appena assunta, siamo rami secchi da estirpare insomma.
Quindi cosa fare per poter stare sul mercato? La risposta è la totale e assoluta flessibilità. Flessibilità significa che nell’azienda per cui lavoro possiamo avere solo una settimana di turni pubblicati perché così riusciamo a evadere meglio la curva di traffico delle chiamate; vuol dire non sapere quando potremo andare in ferie estive perché d’estate c’è sempre più lavoro e bisogna venire a lavorare; significa vederci in ferie forzate a maggio perché c’e meno lavoro e quindi bisogna stare a casa perché altrimenti siamo  un costo eccessivo; significa  che veniamo mandati a casa quando non ci sono chiamate, scalandoci quelle ore dalle ferie e dai permessi o che veniamo chiamati a casa alle dieci di notte per venire a lavoro il giorno dopo in straordinario se ci sono troppe chiamate. Flessibilità vuol dire che non esistono contratti full time  da noi perché un lavoratore part time è evidentemente più flessibile a coprire le fasce orarie critiche. Lo stipendio medio di un lavoratore che ha un contratto a 20 ore è di 500 euro, un lavoratore a 30 ore ha una busta paga di 800 euro, per darvi idea dei nostri stipendi. Il precariato non è solo una condizione lavorativa nel quale la persona è privata della sua sicurezza economica, ma è anche uno stato psicologico in cui il fatto di non intravedere un futuro  determina un’angoscia profonda.
L’Eurodap (associazione europea disturbi attacchi di panico) scrive:
“Su 300 persone tra i 25 e i 55 anni, il 70% ha dichiarato di trovare proprio sul posto di lavoro la maggiore fonte di stress. Di questi, il 60% teme i colleghi mentre il 40% si dice completamente assoggettato al capo per paura di essere licenziato. L’aria che si respira in ogni luogo di lavoro è totalmente artefatta e altamente conflittuale. La paura di perdere il posto dà luogo a dinamiche fortemente competitive, con richieste di prestazioni dei dipendenti da parte dei datori di lavoro che difficilmente possono essere disattese dai lavoratori, terrorizzati di perdere la loro fonte di sopravvivenza”.
I giovani hanno bisogno di essere tutelati, di essere protetti, hanno bisogno di avere certezze sul loro futuro, non hanno bisogno della miriade di contratti atipici che non sono stati minimamente rivisti in questa manovra, non hanno bisogno della revisione dell’articolo 18.
I giovani hanno bisogno di lavoro, di uguaglianza e di equità. Hanno bisogno di una società che abbia voglia di sfidarsi e di investire sui giovani, hanno bisogno di sentirsi parte integrante e attiva di questa società perché un paese che non pensa ai giovani è un paese senza futuro e senza bellezza.
Chiudo con qualche riga di una testimonianza scritta da una mia collega in occasione di un convegno.
“Mi chiamo Giulia, ho 32 anni, una laurea in Scienze Politiche, un master in marketing e comunicazione, e lavoro in un call center. Come tutti i ragazzi cresciuti su quest’isola, ho sempre avuto il bisogno di andarmene. E così, dopo qualche mese ho avuto la mia grande occasione.
Una piccola  azienda del settore moda del capoluogo emiliano mi ha dato la possibilità di misurarmi a livello professionale. Sono entrata con uno stage, pagato, ma con le migliori prospettive di un lavoro stabile. Poi per motivi vari ho abbandonato tutto quello che avevo e sono tornata in Sardegna.
Ero convinta che, con la mia esperienza e le mie capacità, sarei riuscita anche qui a costruire un qualcosa. E invece, a due anni dal mio ritorno in patria,  le cose sono diverse.  E’ da più di un anno, infatti, che sono operatrice telefonica – assistenza clienti. Eppure io ho  nella mia vita dei ricordi ben diversi.
I miei genitori, paradosso del destino, facevano esattamente il mio stesso lavoro. Avevano due signori stipendi però con cui hanno fatto crescere, e bene, due figlie. Ci hanno coccolate e viziate. I miei genitori non hanno studiato, ma hanno fatto studiare noi. In fondo nei miei libri di economia c’era scritto che lo studio, in termini finanziari, va visto come un investimento. Posticipi l’ingresso nel mondo del lavoro, ci spendi su dei soldi, ma poi quei sacrifici sono ripagati in seguito da un lavoro meglio retribuito e da una crescita nella scala sociale. Forse è stata questa la vera favola dei nostri anni.
La vera favola è stata quella di prometterci un futuro. E sicuramente l’idea di un lavoro redditizio. I soldi non fanno la felicità, ma l’aiutano parecchio.
E nei miei sogni di bambina c’era la casa che desideravo. La vita che desideravo. E avrei voluto dare a Cagliari tutto l’amore di cui sono capace.
Sono orgogliosa di essere sarda, ma vorrei non dovermi lamentare della vita che mi costringe a fare. Vorrei mi desse l’occasione di decidere per il mio futuro. Di decidere se mettere su famiglia o di andare a vivere in una grande casa tutta sola. Vorrei fosse fiera di avere me a lavorare qui e non in qualche azienda all’estero. Vorrei che nelle pagine del più famoso quotidiano regionale ci fosse lo spazio per raccontare le storie virtuose di chi ce l’ha fatta qui. E non in qualche angolo sperduto del mondo. Vorrei ci fosse più meritocrazia. Ma soprattutto vorrei ci fosse da parte nostra più coraggio, di restare.
E non per diventare i migliori fra i mediocri, come mi è stato detto, ma perchè ci vuole molto più coraggio per tornare e restare che per partire. Perchè questa è la mia terra e io ancora ci credo”.

Il caso di Sonia Topazio I precari cedono al moralismo


Il caso di Sonia Topazio
I precari cedono al moralismo

Angela AzzaroPubblicato da 
il 18 giugno 2012.
Pubblicato in Le Altre Idee.
Laureata in Storia e critica del cinema con pieni voti. Attrice, giornalista, scrittrice. Da dieci anni Sonia Topazio è il capoufficio stampa dell’Istituto di geofisica e vulcanologia. Ma ora, dopo tanto tempo e dopo le polemiche sulla nomina del neodirettore, Massimo Ghilardi, amico di Gelmini, finisce nell’occhio del ciclone messa sotto accusa dai precari dell’istituto: Sonia Topazio sarebbe stata raccomandata. Ma la vera colpa è un’altra: l’essere stata una sex symbol, un’attrice che ha lavorato con Tinto Brass, posato per Playboy e collaborato con la rivista d’erotismo Blue.
Conta poco se in questi dieci anni ha fatto bene il suo mestiere, se ha il curriculum adatto (collabora anche con il Messagero scrivendo articoli scientifici). No, ciò che non va bene è il fatto di non avere l’immagine giusta, una sessualità normata ad uso e costumo di questo ritorno di moralismo.
Al Fatto quotidiano che le chiede di rispondere agli attacchi dei precari (che intanto su Fb stanno spammando le immagini porno) risponde che sì è vero, è stata appoggiata da un politico, ma come tutti quelli che sono lì.
Ma il punto secondo noi è nell’uso che viene fatto del suo passato da protagonista dell’immaginario erotico e o porno. È questo che non le si perdona. Ma quale sarebbe la colpa? Coloro che stanno facendo questa campagna denigratoria e squallida dovrebbero spiegarci che male c’è a fare film porno o erotici. I diritti, quelli che giustamente i 400 precari dell’Istituto chiedono, non si conquistano con norme talebane né mettendosi contro il diritto di qualcun altro. Così si costruisce una società peggiore per tutti.
Resta da fare la domanda: come mai ora questo attacco? Ci viene il dubbio che davvero i tempi siano cambiati e che a forza di avere creato un clima di caccia alle streghe possa legittimare chiunque a denigrare, sputtanare, prendersela  con le donne che non sono, secondo loro, perbene.

domenica 17 giugno 2012

Peste li colga


di Roberto Loddo 

Giugno è iniziato con il rumore dei caschi degli operai sbattuti con rabbia sui muri del palazzo della Regione. Un rumore assordante che ha accolto l’arrivo di migliaia di lavoratrici e lavoratori provenienti da tutta l’isola per partecipare alla manifestazione dei cassaintegrati di tutte le categorie produttive. Una manifestazione vivace e colorata, per protestare contro il blocco delle indennità di cassa integrazione, convocata sotto il palazzo della presidenza della Giunta in viale Trento, e che ha accompagnato la riunione di Cgil, Cisl e Uil con l’assessore al lavoro Liori. All’ordine del giorno, l’esaurimento delle risorse regionali per coprire la spesa relativa agli ammortizzatori sociali in deroga.
 
Quattro ore di confronto utili solamente a confermare l’arroganza e la superficialità di ciò che rimane della giunta regionale di centrodestra. Giunta che ogni giorno fa strage di diritti e legalità, dannosa come la Peste nera del 1300. Una Peste chiusa nei propri palazzi, che hanno più interesse alla propria sopravvivenza politica che a un miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini sardi, incapace di affrontare l’emergenza di chi rischia di non percepire più reddito già a partire da questo mese. Il governo Monti non poteva essere più esplicito, sottolineando attraverso il ministero del lavoro, il criminale ritardo della Sardegna nell’attuazione di politiche attive del  lavoro per le migliaia di lavoratrici e lavoratori fuori dal processo produttivo da anni: la disponibilità a versare le risorse dovute per gli ammortizzatori in deroga (57 milioni di euro) è strettamente legata alla capacità, da parte della Regione, di velocizzare la spesa dei 40 milioni di fondi europei destinati alla formazione e al reinserimento lavorativo.
 
Il 13 giugno, dopo l’ultimo incontro con i sindacati confederali, la giunta regionale ha deliberato la modifica alla Finanziaria per reperire i 32 milioni di euro necessari a saldare il debito con l’Inps per gli ammortizzatori sociali. Il Consiglio regionale adesso dovrà approvare un emendamento. E i sindacati sollecitano, ancora una volta, la spesa dei fondi comunitari per la formazione e il reinserimento lavorativo. Una nota stampa del sindacato sottolinea come “Il numero delle domande per la cassa integrazione in deroga è aumentato da quindici a ventimila rispetto all’anno scorso: è una situazione che impone l’utilizzo delle risorse e, contemporaneamente, un piano di politiche attive per il lavoro”. Pensiamo davvero che la fine della tempesta possa arrivare quando anche l’ultimo sussidio verrà pagato? Se il cancro potesse essere curato con un aspirina, la Sardegna non vivrebbe in maniera violenta un processo di deindustrializzazione che cammina insieme a un modello di sviluppo economico selvaggio. Un modello di sviluppo fallito, che ha lasciato un deserto di disastri sociali, ingiustizia e solitudine.
 
Ci troviamo di fronte ad una vera e propria bomba sociale rappresentata da 350 mila cittadini sardi sotto la soglia della povertà, con oltre 15 mila persone in cassa integrazione, e migliaia di aziende fallite e in crisi. Una bomba sociale pronta ad esplodere, in qualsiasi momento. Perché questa crisi non è solo il prodotto dell’incompetenza del governo regionale di centrodestra, ma è sopratutto il fallimento di trent’anni di politiche liberiste, quelle in cui ci avevano promesso un mondo più competitivo, in cui si sarebbe dovuto correre tutti un po di più, realizzando benessere diffuso per tutti.
Trent’anni di politiche liberiste mescolate al neocolonialismo dei piani di rinascita, hanno prodotto solo la totale libertà di movimento dei capitali e la completa deregolazione dei mercati finanziari. Hanno cancellato le nostre diffuse culture pastorali e contadine e ci hanno abbandonati a una condizione di progressivo sottosviluppo rispetto alle altre regioni italiane. Non ci può bastare l’erogazione di un sussidio. Come non ci possiamo limitare all’attuazione di un nuovo piano regionale delle politiche attive del lavoro. Le grida degli operai dell’Eurallumina e dei lavoratori dei call center sotto la Regione, rivendicavano una via d’uscita credibile dalla marea di disperazione ed emarginazione. Una via d’uscita che può essere determinata solo da un cambiamento radicale di rotta.
 
Un nuovo modello di sviluppo di politiche del lavoro sane, stabili, legate alle peculiarità delle nostre comunità, nel rispetto dell’ambiente, e dei diritti civili e sociali è ancora possibile.
E’ necessario costruire dal basso, dai conflitti sociali esistenti, un senso comune della crisi, per evidenziare le disuguaglienze e individuare le responsabilità di chi ha prodotto questa crisi. Responsabilità che vanno fatte pagare. Senza sconti.